Umiltà e affetti. L'esperienza di Giuseppe, il falegname di Nazareth

Formazione Adulti incontro con Johnny Dotti
Umiltà e affetti. L'esperienza di Giuseppe, il falegname di Nazareth

Sabato 13 novembre nel teatro don Bosco si è svolto il secondo incontro di formazione agli adulti e alle famiglie. Nel proseguire l'approfondimento dell'aggettivo "Umile" è stato invitato Johnny Dotti, pedagogista e imprenditore sociale, per presentare la figura biblica di San Giuseppe, padre di Gesù. 

Bisogna davvero dare atto a Johnny Dotti per aver, insieme anche ad altri eroici pellegrini del nostro tempo, acceso o ri-acceso un faro sulla figura umana, storica, mistica e non da ultimo simbolica, di San Giuseppe, il padre terreno o il papà di Gesù, quasi sempre narrataci e descrittaci attraverso una formula troppo consolatoria e quasi sempre attraverso un apparato iconografico troppo superficiale. E non c’è realmente figura migliore di San Giuseppe per riconsiderare e riconsiderarsi in questi tempi cupi di recluso isolamento ultra-capitalista come uomini, padri e figli, fratelli.

Infatti la questione che San Giuseppe mette in gioco non è soltanto quella  dell’inizio della Buona Novella (cosa comunque non da poco), che partecipa cioè di un disegno universale ed eterno e quindi per certi versi  incomprensibile, soltanto vagamente e sporadicamente visitabile nella sua infinita grandezza; è piuttosto e soprattutto la questione della vita umana vera e terrena: Giuseppe era un uomo, un ebreo, un falegname e la sua storia, la sua parabola umana ci dice che non si può vivere con la vita. Cioè in altri termini affrontare il paradosso dell’invivibilità della vita: perché vivere è un domandare senza risposta, perché certamente vivere senza domandare sarebbe un susseguirsi di tempo binario meccanicistico; l’uomo è in se stesso una domanda, l’uomo è la domanda; nonostante tutte le sue soluzioni tecniche e tecnologiche, nonostante tutte le sue costruzioni e le sue strutture e nonostante anche tutte le sue ambizioni materialiste.

Per vivere, cioè rispondere alla domanda che siamo, non basta passare blandamente da un attimo all’altro, bonariamente, e quindi limitarsi soltanto ad esistere. San Giuseppe insegna invece che occorre amare la domanda della vita, anche la più dura, la più inaspettata, la meno piacevole; custodire gelosamente la domanda, proteggerla. Tutto quello che infatti lui fa con suo Figlio, che non dimentichiamo è Vero Uomo e Vero Dio, quindi essenzialmente l’Inspiegabile per eccellenza. Un uomo tranquillo, San Giuseppe, che viene all’inizio pesantemente traumatizzato ma che poi attraverso l’accoglimento di questo trauma scopre che proprio in virtù di questo processo spirituale e psicologico insieme ( le due sfere appartengono indissolubilmente ad un unico respiro e soltanto il divisivo e specializzante modernismo novecentesco le ha potute dividere) non si è più soli, semplicemente e candidamente perché non lo si è mai stati.

Questa è la scoperta che San Giuseppe ci consegna, una scoperta che attraversa due millenni di umano peregrinare: custodire il Figlio, la sua Domanda e i traumi che ne derivano; non con cupa rassegnazione ma con mite e umile disciplina e antenne tese verso l’infinito. Il mondo può essere diverso. 

(di Andrea Accorsi) 

 

 

 

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